mercoledì 14 gennaio 2009

Il bambino e la cassiera

Mi è salito un ricordo, come un rigurgito dopo aver ingerito una combinazione di cibi o bevande tra loro incompatibili. Riguarda un evento che, pur essendo recente, avevo completamente dimenticato.
Ho fatto la cassiera, per poche settimane, ed è stata un’esperienza incredibile in tutti i sensi. L’episodio che vi voglio raccontare risale proprio a quel periodo ed è accaduto mentre stavo lavorando. Era uno di quei pomeriggi quando non hai neppure il tempo di fare la pipì e la fila di gente che aspetta di pagare si perde lontano ed hai la sensazione che non finisca mai (più che una sensazione è la pura realtà).
In quelle giornate lì, non puoi neanche alzare la testa, non un solo pensiero riesce a passare tra un resto da dare ed un prodotto da conteggiare. Sei stanca, la schiena è a pezzi (purtroppo in quel poco tempo non sono riuscita ad imparare l’arte del lavorare seduta su quelle diaboliche sedie da cassa) e diventi definitivamente un automa, una macchina, un braccio del sistema senza più anima – e penso a Marx.
Tu non sei più una persona e le persone che ti passano davanti non lo sono più neanche loro, non le vedi più come umani, non scambi sguardi né sorrisi, non senti neppure gli insulti o le battute dei coglioni. Ogni tanto l’occhio ti va sul tuo collega accanto, anche lui in modalità auto, o sul solito scassapalle che grida cercando una scusa per litigare col capo reparto. Ma è solo un rumore di sottofondo, una digressione involontaria. Tutto è assolutamente spento, senza vita.
Ad un certo punto faccio pagare una famigliola con un bimbetto di circa due anni. I bimbi, quando non sono fuori di sé, e a ragione, per essere costretti a frequentare questi luoghi di Satana, sono immuni dall’annichilimento generale.
Questo bimbo mi guarda ed io gli sorrido. E mi si scioglie il ghiaccio dal cuore. Mi chiede il mio nome ed io rispondo. La signora mi saluta, io ricambio e faccio ciao con la manina al piccoletto. Poi mi giro e ritorno ad essere una macchina, ancora, diretta verso il prossimo cliente.
Con la coda dell’occhio però avverto un movimento strano dentro il mio spazio vitale: è quel bambino! Mentre i suoi genitori sono già in prossimità delle porte automatiche si avvicina a me, da dentro il mio box, allarga le mani, mi abbraccia forte per alcuni secondi e mi dice: “ciao Stefania”.

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